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Freitag, 25. Mai 2012



L’uomo senza radici e il farmacista di Auschwitz
di Emilio Jona

Sappiamo ormai bene cosa sia stato e cosa abbia prodotto il nazismo in poco meno di 12 anni: la riduzione dell’uomo a pezzi, cosa, rifiuto, un male non demoniaco ma insieme estremo, non solo banale, perché anche sadico e crudele, uno sterminio intenzionale, funzionale e burocratico, che ebbe natura germanica, ma anche universale, che apparteneva alla modernità cioè ad una civiltà tecnologica ed industriale, ma insieme era anche profondamente arcaico, un male che aveva avuto una natura unica e specifica che non escludeva però la sua ripetibilità, una utopia antimodernista realizzata con gli strumenti della modernità, un male dominato da pulsioni totalitaristiche e da una cieca obbedienza al potere.
Su questa vicenda la documentazione storica, la letteratura, la memorialistica, le testimonianze, le immagini, sono diventate sterminate, mentre ancor oggi, a oltre 67 anni dalla fine del nazismo, nuovi libri si aggiungono a costruire un puzzle, privo di ombre interpretative, ma ricco di fatti, di storie e di memorie.
Due libri di Dieter Schlesak, l’uno all’altro strettamente collegati, costituiscono, in quest’ambito, uno sguardo molto interessante sulla Shoah, perché essi provengono da uno scrittore tedesco della minoranza transilvanica, nato nel 1934, che da ragazzo, in quella provincia rumena, e poi da adulto in Germania e in Italia, ha vissuto e osservato la storia e la memoria tedesca di quegli anni, e l’ha raccontata prendendo spunto dagli atti di un processo dibattutosi tra il 1963 e il 1964 a Francoforte contro soldati nazisti imputati di genocidio.
E’ un racconto molto particolare, perché quel processo vedeva tra gli altri imputati un certo Victor Capesius, un capitano delle SS che era stato farmacista a Schassburg (il paese natale dell’autore) e poi ad Auschwitz. Costui, oltre a partecipare sulla rampa di accesso dei vagoni piombati alla selezione dei deportati, riceveva, conservava e quindi introduceva nelle camere a gas il Zyklon B, che serviva per la loro eliminazione.
Ma ciò che connota questo suo libro e ne costituisce la sua parte centrale è che questo Capesius insieme ad un altro ufficiale delle SS, Roland Albert, addetto allo stesso campo di sterminio, erano di Shassburg (la rumena Sighisoara) ed erano entrambi legati alla famiglia dell’autore. Capesius ne era amico di lunga data e fu pretendente, un tempo, alla mano della madre di Schlesak, mentre Roland era il nipote amatissimo della stessa, e quindi suo cugino. Vi è poi un terzo personaggio di sfondo, zio di Schlesak, fratello di sua madre, che era anch’esso un ufficiale delle SS addetto al campo di Buchenwald e che fu ucciso dai deportati nei giorni della liberazione.
Tutti i personaggi che appaiono nel libro hanno quindi un nome e un cognome e sono vittime, testimoni o carnefici, tranne il deportato Adam, figura immaginaria, che appare come il depositario della massima conoscenza della natura e della realtà del campo di sterminio e condensa in sé, pur nella sua totale verosimiglianza e verità, più deportati, restando l’interlocutore privilegiato dell’autore, anzi quasi un suo alter ego.
Tutta la storia di Auschwitz, che oramai conosciamo nei suoi più atroci particolari, passa e ripassa davanti ai nostri occhi in questo libro, attraverso la minuziosa trascrizione degli atti del processo e i ricordi di Adam e di altri deportati. È un puzzle di una intollerabilità e di un orrore che non ha limiti e che si ripropone incessantemente insieme al nostro orrore, al nostro dolore e alla nostra incredulità, perché nessuna analisi e interpretazione razionale pur corretta, pare sufficiente a comprenderlo sino al fondo, anche perché, come diceva Primo Levi, comprendere significa in qualche modo giustificare.
Ora Schlesak affonda il suo coltello in questo mondo, ripete e percorre questo orrore in tutto il suo manifestarsi senza alcuna indulgenza per i suoi compatrioti, senza nulla nascondere, senza nulla giustificare o minimizzare. Il suo è lo sguardo di esule dalla Transilvania prima e dalla Germania poi, di un testimone implacabile che, da tedesco tra i tedeschi, ha assunto su di sé un ruolo simile a quello che si era dato Primo Levi, tanto che il suo sguardo sulla Shoah sembra confondersi con uno sguardo ebraico. Si potrebbe ipotizzare che Schlesak abbia dovuto abbandonare la sua terra natale prima e la Germania poi per mettere uno spazio prima fisico e poi mentale tra sé e quei luoghi e questi suoi congiunti o suoi amici di famiglia, che sono entrambi sopravvissuti alla loro ignominia.
L’uno, Capesius, dopo una condanna a nove anni di carcere, l’altro, che riuscì a farla franca perché distrusse documenti, comprò silenzi e fece carte false per sfuggire alle sue responsabilità di assassino.
Entrambi, intervistati lungamente dall’autore in anni lontani (1978) non appaiono per nulla pentiti, né consapevoli delle loro colpe. Capesius (1907-1985) che è laureato in farmacia e filosofia e ha fatto il rappresentante di medicinali e il farmacista, appartiene ad una famiglia religiosa e benpensante. In città ha amici ebrei, appare sorridente in fotografie assieme a loro, ma poi quando li incontrerà ad Auschwitz, li indirizzerà gentilmente verso le camere a gas, rassicurandoli sul loro futuro.
“Andate soltanto a fare un bagno e tra due orette vi rivedrete tutti insieme” dice amichevolmente al conoscente dott. Berger, la cui moglie e le cui tre figlie ha appena contribuito a gasare.
La carriera criminale di questo piccolo borghese, capitano delle SS, sposo e padre, si potrebbe aggiungere, “esemplare”, appare così in tutta la sua insensata normalità. Egli afferma, a sua difesa, che i genitori gli hanno inculcato il principio che la Germania è un modello di ordine e di legalità e dice che ciò che accadeva ad Auschwitz era legale anche se crudele, che la gassazione era possibile se c’era una legge corrispondente, che lui non era responsabile di nulla, che si sarebbe volentieri sottratto alle sue incombenze e che ha solo eseguito degli ordini che era impossibile discutere, perché l’obbligo dell’obbedienza era assoluto. Il che è falso, perché – dice Schlesak – non vi è documentazione di processi a carico di soldati che si siano rifiutati di commettere atti contrari alla loro coscienza, mentre al massimo potevano essere inviati al fronte per punizione.
L’autore intervisterà lungamente alla fine degli anni 70 anche il cugino Ronald Albert, nato nel 1916, ufficiale delle Waffen SS e destinato fin dal 1942 al corpo di guardia ad Auschwitz.
Schlesak lo incontra ad Innsbruk, quando è ormai sicuro dell’immunità. È quindi sereno e disteso, e parla liberamente di sé. Ad Auschwitz ha vissuto in tutta normalità, con la moglie e lì gli è nato l’unico figlio. Peraltro la malattia doveva essere eliminata e recisa dal corpo sano e questo era ciò che è avvenuto per quanto riguardava gli ebrei. Egli dice che può quindi dichiarare davanti a Dio e agli uomini di non sentirsi colpevole.
Enorme dunque è la devastazione morale di questo personaggio, rileva Schlesak, certo anche lui afferma che avrebbe voluto andarsene da Auschwitz ma di non esserci riuscito. Certo che anche lui non faceva volentieri l’ufficiale della guardia, ma un ordine è un ordine. Certo c’era una grande nube di fumo denso, si bruciavano musulmani rinsecchiti e c’era un odore dolciastro e grasso che dava il voltastomaco, ma lui aveva lo zaino pieno di libri di poesia e invece di montare la guardia leggeva Hölderlin, il suo poeta preferito. Roland pensava che le righe dei libri fossero mura protettive presso cui trovare rifugio, anche se lo sterminio aveva per lui un senso. Così poteva cantare la Wintereisse, suonare Schubert e insegnare in tutta tranquillità religione ai figli delle SS di guardia al campo, facendoli riflettere sul contenuto di un salmo, anche se aveva poco prima partecipato ad una fucilazione o ad una selezione.
Così racconta e ride, dice l’autore, nervoso, brutale, ingenuo e sconsiderato.
Le agghiaccianti affermazioni di Roland e di Capesius fanno parte della Germania del dopoguerra, insieme alle miti sentenze dei tribunali tedeschi a carico di quella piccola parte di assassini che fu perseguita e, al silenzio, dei tanti che collaborarono e obbedirono, “dal soldato semplice al feldmaresciallo Keitel, che davanti al tribunale di Norimberga dichiarò di non essere colpevole ma solo di aver obbedito agli ordini”. Così scriveva Uwe Timm in un libro, bello ed altrettanto inquietante, che ha forti legami con il secondo libro di Schlesak di cui vorrei ancora parlare, L’uomo senza radici, perché in entrambi i romanzi un autore tedesco non ha paura di confrontarsi con la storia della propria famiglia e dei suoi componenti compromessi con il regime nazista.
L’uomo senza radici non è scindibile da Il farmacista di Auschwitz, di cui è una sorta di elaborazione ulteriore e interiore che completa quel libro e lo sposta su di un altro asse. Qui non abbiamo più un resoconto di eventi o una trascrizione di atti processuali, ma uno sprofondare nella soggettività dell’io narrante, in un viaggio a ritroso nel tempo verso i luoghi dell’infanzia e della giovinezza, e cioè verso quella Transilvania felice accanto all’orrore, sull’orlo della catastrofe tra le ombre dei propri morti. Riappaiono quindi gli stessi personaggi dell’altro libro in particolare Roland e Capesius, e lo stesso Adam, ma fortemente segnati dal vissuto personale e dalla reattività dell’autore.
Questo viaggio da Agliano in Toscana, dove egli dice di vivere da alieno, verso Schassburg, nasce in apparenza per esaudire una promessa alla madre morente, che gli chiedeva di ritornare tra le case e le tombe delle famiglie che avevano lasciato, fuggendo dalla Romania oppressa dalla dittatura comunista. Il dialogo dell’autore con quei luoghi e i suoi morti è duro, frammentato e concitato, perché quella è la sua gente che, in un andare e venire vorticoso e caotico tra passato e presente, dice a lui le sue ragioni. E sono ragioni terribili. Essi parlano del nazismo come di una religione, finalmente purificata dal giudaismo, dicono che il giudaismo era un ascesso purulento da estirpare dal corpo dell’Europa. Essi palpeggiavano le loro donne, giocavano amorevolmente con i loro figli mentre fumavano i camini di Auschwitz. Leggevano i poeti, suonavano Wagner e marcette militari tra le grida dei morenti, si bagnavano al fiume dei discorsi paranoici di sangue e di sterminio e trascinati dalla corrente della loro Germania lontana sentivano di appartenere a lei e al suo fuhrer.
È difficile seguire l’autore in questo affastellarsi e sovrapporsi di ricordi, di pensieri, di ossessioni, di mostruose rimozioni e giustificazioni che s’intrecciano con il suo appassionato e critico rigetto di quel mondo. Perché per Schlesak è insopportabile che la sua infanzia felice del 1944 abbia coinciso, senza che lui allora lo sapesse, con il massacro di buona parte della comunità ebraica di quegli stessi luoghi, complici i suoi amici e parenti.
Sembra così che prevalga in questo libro una sorta di privato rito liberatorio, ma anche funebre, per esorcizzare un passato che è impossibile cancellare e di cui si sente erede ed involontario responsabile, tanto è intricato alla sua vita e alla sua storia famigliare. E la conclusione del libro, che non dico, sembra confermarlo.
Emilio Jona
Dieter Schlesak, L’uomo senza radici, Garzanti, pp. 462,  18, 60
Dieter SchlesakIl farmacista di Auschwitz, Garzanti, pp. 450,  18,60
     










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